Siamo ormai a fine luglio, il periodo della trebbiatura si è concluso nel Cilento. Siamo soddisfatti di come questa stagione del grano sia andata. Ho seminato circa tre ettari di grano duro diviso in saragolla, cappelli. Ma vi voglio parlare del saragolla questo grano così antico, e che viene da così lontano.
Tra la Lucania, il Sannio e l’Abruzzo si coltiva ancora un’antica varietà di khorasan, il tipo di frumento a basso contenuto di glutine e ricco di antiossidanti e proteine
Il grano saragolla non è un cereale molto conosciuto, né molto coltivato in Italia. Chi conosce le sue proprietà, però, si rende conto che assomigliano molto a quelle di un altro alimento, da qualche anno molto di moda sulle nostre tavole.
Un mito da sfatare
Molti credono che il Kamut® sia una varietà di grano di qualità superiore a quello tradizionale per apporto energetico e minerali contenuti. Kamut in realtà è il nome di un’azienda statunitense che nel 1989, con un’abile operazione di marketing, ha messo il cappello sul grano sulla sottospecie turanicum della varietà di khorasan (Triticum turgidum il nome scientifico), chiamato così dalla regione dell’Iran dove fu scoperto. Il khorasan è infatti una varietà specifica, che contiene dal 12 al 18% di proteine, è ricca in selenio, magnesio e zinco e ha un glutine più destrutturato e quindi più digeribile. È stato coltivato per secoli in Anatolia, Egitto (era anche conosciuto come “grano del Faraone” e il fondatore della Kamut prese il nome dal suono di un geroglifico) e in Mesopotamia.
Origini balcaniche
Un’altra varietà del khorasan è il grano saragolla (Triticum turgidum ssp. durum), che fu introdotto nell’Italia centrale da popolazioni balcaniche di origine medio-orientale nel 400 d.C.: il termine saragolla , infatti, deriverebbe dal bulgaro antico, dove significava “chicco giallo”. Il declino del grano saragolla comincia alla fine del ‘700 quando le conquiste coloniali e l’incremento demografico provocano l’importazione di grani duri molto produttivi dal Nord Africa e dal Medio Oriente e questa varietà rimase la più coltivata solo nel versante adriatico del centro Italia: l’ibridazione delle spighe, messa in atto all’inizio del XX secolo, ha accentuato la sua emarginazione. Attualmente il saragolla sopravvive solo in determinate aree dell’Abruzzo, del Sannio e della Lucania, grazie all’opera di singoli contadini che hanno continuato a seminarlo. Quella che si trova in commercio è la versione nanizzata, brevettata negli anni ’60.
Un grano duro e resistente
Il saragolla è un grano a ciclo precoce, duro e ambrato e presenta un fusto alto fino 180 cm. Ha la cariosside, cioè l’involucro del seme, nuda e allungata più di quella di qualunque altro frumento e la sua farina è di colore giallo intenso. Rispetto ad altri tipi di grano resiste molto di più ai parassiti e si presta quindi molto bene alla coltivazione biologica.
Perché fa così bene
Il grano saragolla, come tutti quelli della famiglia khorasan è nutriente, salutare e altamente digeribile. È particolarmente apprezzato dagli intolleranti ai prodotti del grano comune per la sua bassa quantità di glutine (non ne è privo, quindi non è comunque adatto ai celiaci). Al contrario, ha un alto contenuto di selenio e beta carotene, eccellenti antiossidanti. Di recente, un team di ricercatori dell’Università di Firenze in collaborazione con l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi ha rilevato come consumare prodotti a base di khorasan riduca i fattori di rischio cardiovascolare come il colesterolo totale, il colesterolo LDL e la glicemia, oltre a risultare meno dannoso per l’apparato intestinale. Motivi in più per mettere in tavola il grano saragolla: una scelta sana, gustosa e a chilometro zero.
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